di Maria Musti
Il 42enne milanese Luca Ciammarughi è un musicista poliedrico: raffinato esecutore solista e camerista, conduttore radiofonico, saggista. A Cremona Musica International Exhibitions and Festival ha presentato la sua traduzione e curatela del volume Esquisses pour une méthode de piano, gli appunti lasciati da Chopin per un metodo di pianoforte rimasto incompiuto a causa della sua prematura scomparsa; accanto a lui l’autore del libro, il musicologo svizzero Jean-Jacques Eigeldinger, profondo conoscitore del compositore polacco, che ha riunito e catalogato le fonti manoscritte, pubblicandole nel 1993 in un volume arricchito da testimonianze e facsimili. Finalmente questo testo prezioso è disponibile anche in italiano.
Come nasce l’esigenza di questa traduzione?
Tutto è partito da una proposta di Andrea Estero di LIM [Libreria musicale italiana], che accolsi immediatamente. Si tratta di uno dei tanti testi importanti di cui, sorprendentemente, non esiste una traduzione in italiano, mentre la versione francese è disponibile già dal 1993. Appunti per un metodo di pianoforte riassume il pensiero di Chopin sulla didattica pianistica: si affianca a Chopin visto dai suoi allievi, sempre scritto da Eigeldinger, tradotto in italiano da Costantino Mastroprimiano e pubblicato da Astrolabio nel 2010. Sono due testi fondamentali per qualunque pianista che voglia avvicinarsi nel modo più corretto al grande compositore polacco.
Capita molto raramente di considerare lo Chopin docente: che ritratto emerge da questo libro?
Quello di un insegnante molto avanti rispetto alla tecnica del suo tempo, assai attento alla fisiologia. In un’epoca in cui imperavano chiroplasto, guidamani, dactylion [accessori che bloccavano il polso al fine di mantenere la giusta postura sulla tastiera, ndr], fu il primo ad affermare che il pianoforte non si suona solo con polso e dita e a parlare di rilassamento, di coinvolgimento di braccio e corpo, teorizzando una tecnica più organica. Il libro si apre con un netto rifiuto del meccanicismo imperante, dell’esibizione quasi ginnica e acrobatica: «spesso si insegna il pianoforte come se si dovesse camminare sulla testa, e poi non si sa più camminare sui piedi». Un altro suggerimento significativo è quello di usare il polso come il cantante usa il respiro.
Quale ritiene che sia il suo insegnamento più importante?
La tecnica pianistica intesa come ricerca delle sfumature e non dell’efficienza meccanica, l’importanza delle nuances, la valorizzazione delle differenze tra le dita, lo studio cosciente: secondo lui sarebbero state sufficienti due o tre ore di applicazione, ma sempre prestando attenzione a non forzare. Tuttora tra i pianisti domina il binomio forza-agilità, spesso a discapito della ricerca sonora.
Che rapporto ha con la musica di Chopin?
Una vera e propria adorazione, ma la suono poco in pubblico perché è l’autore che mi intimidisce maggiormente, il più esplorato da tutti i grandi pianisti. Suonare Chopin significa confrontarsi con interpretazioni iconiche come quelle di Horowitz, Benedetti Michelangeli, Zimerman. È importante, quando si affronta lo studio di questo repertorio, ripartire dal testo e dimenticare ciò che abbiamo ascoltato. Prima di cimentarmi con i suoi brani devo capire dove potrei avere qualcosa di personale da dire. Ho suonato alcuni improvvisi, delle mazurche, dei valzer, e mi piacerebbe eseguire la Polonaise fantaisie op. 61, brano visionario e formalmente geniale, verso cui sento una predisposizione naturale.
Lei possiede un pianoforte Pleyel, il preferito da Chopin.
È uno strumento che si presta a ottenere le sonorità chopiniane, anche le più terribili e visionarie, e a conservare la disuguaglianza delle dita della mano, che lui considerava una ricchezza. Non bisogna affannarsi a rendere autonomo l’anulare, naturalmente legato al medio, ma cercare la giusta diteggiatura che valorizzi questa diseguaglianza. Il registro acuto del Pleyel è cristallino e fragile – in senso positivo – come una voce di soprano di grande sottigliezza.
Autore preferito, nel suo vastissimo repertorio?
Innanzitutto Schubert, che è una mia passione costante, un amico che mi accompagna sin dalla preadolescenza. Poi Rameau, che ho scoperto verso i 20 anni grazie a dei dischi acquistati da Libraccio: fui colpito soprattutto dalle Nouvelles suites del 1728. Oggi è molto eseguito dai pianisti; ho sempre apprezzato la sua fantasia armonica e ritmica e la ricchezza di abbellimenti, da affrontare con attenzione perché necessita di grande leggerezza.
Interprete, scrittore, conduttore radiofonico, direttore artistico. Come riesce a conciliare tutte queste attività?
L’organizzazione è decisiva: non perdo tempo in cose che non mi interessano. Non guardo la televisione, non ho l’automobile e quindi posso sfruttare anche il tempo in cui viaggio. Come diceva Seneca nel De brevitate vitae, il tempo è la cosa più preziosa che abbiamo. I social sono fonte di grande perdita di tempo, anche se io li uso molto, ma per divulgazione, per condividere bellezza.
Ci vuole raccontare qualcosa dei suoi prossimi progetti?
Ho molte idee in mente: tradurre, suonare tanto Mozart, un altro mio “autore del cuore”, approfondire Couperin, organizzare la IV edizione di PianoSofia a ottobre [il festival milanese di cui è direttore artistico insieme a Silvia Lomazzi, ndr], un altro libro in preparazione…
Stavamo quasi per dimenticare che lei è anche compositore.
Non ho studiato composizione: mi sono cimentato in questo campo perché un carissimo amico purtroppo scomparso di recente, Yvo Bisignano, grande disegnatore, mi chiese di scrivere la colonna sonora per un suo cortometraggio. La presi come una sfida. Pur non avendo una formazione compositiva accademica, mi divertivo a scrivere, e più scrivevo più mi sbloccavo. Noi pianisti, avendo spesso a che fare con i giganti della storia della musica, ne veniamo condizionati. Neuhaus diceva che da bambino aveva qualcosa che cantava dentro di lui, e che poi ebbe un blocco: ho provato anche io la stessa sensazione verso gli undici anni. Ho composto in modo naif, senza preoccuparmi di essere nuovo e originale, facendomi ispirare dalle immagini. Il mio linguaggio è tonale, con chiare reminiscenze della musica che amo: Schubert e le sue modulazioni, Rameau, Debussy.
Da direttore artistico, come vede il futuro della musica classica?
Bisogna innovare il nostro format vecchio di secoli attraverso il dialogo tra le arti, che è indispensabile: dobbiamo fare cultura ma anche spettacolo. Sono necessari dei collegamenti con il mondo in cui viviamo, con letteratura, teatro, arti figurative, con cui la musica si interseca. Il concerto è narrazione. Ciò ovviamente fa salire i costi: un recital pianistico è “economico” ma rischia di essere noioso. Dobbiamo abbandonare l’idea che con un’impostazione tradizionale e accademica si possa far carriera e catturare il pubblico: bisogna lavorare sull’immaginario, avere personalità. Il pop è il contrario della classica: manca la conoscenza ma c’è un lavoro immane sulla parte spettacolare. Proporre un’esperienza “non prevedibile” è un nostro dovere.
Il suo rapporto con Cremona Musica?
Sono molto legato a questa kermesse, dove ho presentato vari libri, tra cui Soviet piano. Si tratta di una bella fucina di idee e incontri, luogo per eccellenza in cui confrontarsi de visu intorno alla musica. Lì ho conosciuto persone con cui sono restato in contatto, giornalisti stranieri, musicologi, musicisti, tra cui Jed Distler, con cui ho in comune il fatto di essere pianista e “radiofonico”. L’incontro di persona è fondamentale, crea connessioni profonde. Il fatto che anche lo stesso Jean-Jacques Eigeldinger, intellettuale di statura mondiale, si sia convinto a partecipare di persona rende bene l’idea del valore di questo appuntamento.
Se non si fosse dedicato alla musica, che lavoro avrebbe scelto?
Lo scrittore di narrativa, di romanzi o racconti. O di viaggi, altra mia passione.
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